Per una riscoperta del pensiero sistemico
Il tema di questo mese – Il “sapere”, la sana curiosità per la conoscenza – spalanca voragini di riflessioni, alle quali in tanti e in tutte le epoche si sono dedicati. Dal “So di non sapere” attribuito a Socrate, in cui si celebra la consapevolezza di una non conoscenza definitiva (da cui però sorge il desiderio di conoscere), al “seguir virtute e canoscenza” dantesco, che invita l’uomo a “non viver come bruto”, passando per Confucio e Lao Tzu, l’argomento è un florilegio di motti e aforismi con i quali i grandi pensatori hanno inteso indicare essenzialmente la “necessità” di conoscere per capire. Una sequenza non sempre automatica, come vedremo. Ma la citazione che, forse, risulta più efficace per descrivere la relazione tra la curiosità e la conoscenza, tra la causa e l’effetto, è di tal Bernard Baruch, un finanziere americano del secolo scorso, passato alla storia per essere stato l’autore, nel 1946, del piano che porta il suo nome sul disarmo nucleare.
“In milioni hanno visto la mela cadere, ma Newton è stato quello che si è chiesto perché”. La semplicità, e pertanto la genialità, di questa frase ricorda, per precisione analitica, un lampo di luce di Caravaggio su una tela zeppa di detti e massime sul sapere e sulla conoscenza. Illumina con rara potenza espressiva un concetto che sottolinea l’importanza di adottare un approccio attivo e curioso verso l’apprendimento. La curiosità è infatti vista come il motore della scoperta e dell’innovazione, poiché ci spinge a porre domande, esplorare nuove idee e affrontare sfide intellettuali. Ci aiuta a rimanere aperti e recettivi, permettendoci di adattarci ai cambiamenti e di crescere sia a livello personale che professionale. Questa mentalità di apprendimento continuo è fondamentale in un mondo in rapido cambiamento, dove le competenze e le conoscenze sono ormai diventate merce da “obsolescenza programmata”. Coltivare dunque un sano desiderio di sapere può portarci a scoprire nuove passioni, opportunità e una comprensione più profonda del mondo che ci circonda. Tuttavia il “sapere” (la cui radice terminologica rimanda ai significati di “sapore”, “sapidità”) non è tanto la mera accumulazione di informazioni, quanto piuttosto un processo dinamico che coinvolge l’interpretazione, la riflessione, ovvero la capacità di elaborare le nozioni acquisite e di applicarle in modo critico.
Come già ammoniva Einstein, “l’informazione non è conoscenza” talché “qualunque sciocco può sapere; il punto è capire”. E il comprendere, nel suo significato etimologico, richiama l’atto di “afferrare le cose”, di intenderle appieno: ciò che permette la rielaborazione e la riorganizzazione di assetti precedenti. Non a caso, uno dei massimi psicoanalisti italiani, Massimo Recalcati, riflettendo sul valore transeunte della moderna epistemologia, caratterizzata dalla “linkmania” ossessiva e distraente della rete, afferma: “La dimensione dell’esperienza è totalmente evasa da un sapere prêt-à-porter, sempre a disposizione, che, di fatto, genera anoressie mentali, rigetto della ricerca del sapere nel nome di una sua acquisizione senza sforzo. Tanto il soggetto sembra staccarsi dalla pratica lenta della lettura, tanto appare perennemente connesso al grande Altro della rete che promette un sapere sempre immediatamente disponibile”. Proprio questa moderna “disfunzione metabolica” della conoscenza, che non consente una solida interiorizzazione dei concetti, è alla base di un fenomeno peculiare del nostro tempo: la conversione del sapere in “saperi”. Se Orazio, e dopo di lui Kant, esortavano a osare di conoscere (sàpere àude) nel senso di disporsi a studiare le cause e i principi dei fenomeni, oggi l’idea di sapienza è legata all’iperspecializzazione, all’acquisizione più o meno approfondita di elementi conoscitivi in un determinato ambito scientifico o della realtà.
“Nessuna epoca ha mai saputo tanto e tante diverse cose dell’uomo come la nostra. Però in verità nessuna ha mai saputo meno della nostra che cos’è l’uomo”. Questa considerazione di Martin Heidegger è un dardo velenoso scagliato contro taluni sistemi formativi orientati alla segmentazione dell’apprendimento e incoraggiati in Occidente da quasi tutte le agenzie educative per motivi essenzialmente economici e legati a una cultura esasperata della competitività. Se si considera in prospettiva il problema, finiremo per essere tutti specialisti di qualcosa, perdendo però il senso complessivo delle cose; per usare le parole di Konrad Lorenz, “conosceremo sempre più cose su sempre meno argomenti e alla fine conosceremo tutto di niente”. E chi non sa nulla deve credere tutto. Contro questo rischio di parcellizzazione del sapere, e per promuovere un nuovo Umanesimo, si è levata anche la voce del più grande filosofo vivente: Edgar Morin. Nel suo libro “Una testa ben fatta”, che riprende una frase di Michel de Montaigne “E’ meglio una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena”, Morin sottolinea che l’importanza della cultura e dell’educazione non risiede nella mera accumulazione quantitativa dei saperi, ma nel determinare un’attitudine generale a collegare e organizzare i problemi. Il filosofo traccia un solco profondo tra l’acquisizione di “conoscenze” (plurale) e la capacità di un pensiero sistemico. Pensare sistemicamente significa interessarsi al rapporto che c’è tra gli elementi, alla loro evoluzione, alle connessioni; significa sviluppare la capacità di superare frammentazioni e parcellizzazioni, promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali, all’interno dei quali è poi possibile inscrivere anche le conoscenze (iper) specialistiche.
di Gianfranco Bonanno (dal mensile di cultura Botros n. 28 – 18/09/2024)